L'insorgere della guerriglia albanese sulle alture di Tetovo (Macedonia) e le conseguenti rappresaglie avvenute ai primi di giugno, che hanno causato la morte di cinque militari, sono la dimostrazione tangibile di quanto il quadro politico e militare, nei Balcani e in particolare in Macedonia, sia fluttuante.
Ci è parso interessante tornare sul tema, già offerto al lettore e affrontato da Caracciolo in Parte I pur se con prospettive e accenti diversi.
Tim Judah, autore di questo articolo, giornalista e scrittore, dal 1990 al 1995 è stato corrispondente dai Balcani per il London Time e l'Economist. Da lì, con i suoi reportage, ha fornito testimonianze dirette delle tragiche vicende che hanno sconvolto l'Albania, la ex-Iugoslavia, la Bulgaria e la Romania. L'esperienza nel campo ha prodotto due interessanti volumi: "Kosovo: war and revenge"; "The Serbs: history, myth and the destruction of Yugoslavia" che ruotano sui temi difficili e controversi della realtà dei Balcani.
Judah evidenzia come in Macedonia, sebbene il PDA (Partito Democratico Albanese) partecipi alla coalizione di governo, la costituzione e le leggi siano discriminatorie nei confronti dell'etnia albanese, soprattutto per quanto riguarda l'inserimento nelle forze di Polizia, nei ministeri e nelle altre istituzioni statali. Benché il Governo macedone adotti un atteggiamento tollerante rispetto alle rivendicazioni dell'etnia albanese, le Autorità locali tuttavia mantengono alto il livello di guardia, ritenendo che nonostante il fallito referendum illegale del 1992 per l'autonomia dell'Illiria (regione a maggioranza albanese) e la proposta del PDA di federalizzare la Macedonia, l'obiettivo a lungo termine dell'etnia albanese resti comunque l'unione ad un Kosovo indipendente o ad una Grande Albania.
Il quadro che emerge dalla lettura di questo articolo è assimilabile alla figura di un prisma sfaccettato. Se da una parte i capi della guerriglia in Macedonia e nella valle di Presevo ammorbidiscono i toni al fine di compiacere l'interlocutore occidentale e si fanno coinvolgere nei colloqui di pace appoggiati da Unione Europea e Stati Uniti, dall'altra hanno ancora il potere di fugare ogni speranza che slavi macedoni e albanesi possano mettere da parte i contrasti prima di far prevalere la logica delle armi.
Tuttavia, una considerazione molto importante fatta da Judah "è che la guerriglia (NLA) in Macedonia non è la creazione degli ideologi della Grande Albania, ma di alcuni perdenti che non si sono resi conto che le cose sono cambiate, che combattere per il separatismo etnico non ha alcuna chance di supporto occidentale".
Dalla caduta di Milosevic tutto è cambiato: "tutela dei diritti umani, diritti delle minoranze, rispetto dei confini", sembrerebbe che i capi della guerriglia abbiano capito che un altro conflitto in Macedonia lederebbe gravemente all'immagine del Kosovo, in modo senz'altro più grave di quanto non abbia già fatto la pulizia etnica compiuta sui serbi, e si consoliderebbe il consenso unanime di tutte le potenze che il Kosovo non può essere indipendente. E questo è esattamente quanto è accaduto.
L'autore riporta il pensiero di un'analista politico albanese: "c'è ancora chi sogna la Grande Albania, ma non è un'idea popolare. Se il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite o una conferenza internazionale ci offrissero una Grande Albania non la rifiuteremmo, ma non siamo disposti a combattere per ottenerla".
Analisti e osservatori moderati, che sanno guardare in faccia la realtà, hanno capito che è troppo tardi per il Grande Kosovo o la Grande Albania, ciò che occorre fare adesso è rendere i confini non importanti. Certamente, la Grande Albania rimane l'obiettivo di alcuni, ma il prezzo di un altro Kosovo, in termini di perdite umane e difficoltà di dialogo con il mondo occidentale, sarebbe troppo elevato, in particolare nella prospettiva di entrare a far parte dell'Unione Europea ed abbracciare principi di integrazione e cooperazione.
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